Non aveva compiuto grandi opere attraverso le quali essere ricordato, non era un architetto di grande fama, non ancora, no ne ha avuto tempo. Giuseppe Marletta, architetto catanese di 49 anni è morto in un letto, immobile, dopo 7 anni di coma. I sogni, le speranze, un futuro professionale roseo, si sono spezzati in pochi istanti, il tempo di iniettare l’anestesia, poi il silenzio, l’arresto respiratorio, poi il coma, e quello che era un futuro quanto mai vicino, realizzare opere d’architettura, è volato via.

Errore medico, quando costa la vita

Giuseppe Marletta aveva solo 42 anni nel 2010 quando in quello che doveva essere un intervento banale, di routine, ha perso la vita, o meglio, è entrato in coma. Il 1 giugno del 2010, l’architetto catanese viene sottoposto a un intervento molto semplice nell’ospedale Garibaldi-Nesima di Catania. Doveva rimuovere dei punti di sutura in metallo che gli erano stati applicati alla mandibola in seguito a un intervento ortodontico. Qualcosa però non è andato come sarebbe dovuto andare e l’architetto è stato portato d’urgenza in rianimazione dove è stato trattenuto per due mesi, poi il coma, coma durato ben 7 lunghi anni.

L’inchiesta giudiziaria

Fin dai primi momenti si è compreso che si trattava di un caso di malasanità, uno dei tanti che accadono nel nostro Paese, quand’anche si continui a sostenere che il nostro sistema sanitario è uno dei migliori al mondo. Fu così aperta un’inchiesta giudiziaria in cui l’infermiere Carlo Terrano, assieme al medico anestesista Silvio Budello, furono condannati in Primo grado a sei mesi di reclusione nel 2014. Naturalmente la pena fu sospesa, nonostante l’accusa di lesioni gravissime. La sentenza fu confermata anche in Appello nel 2015, sentenza parzialmente modificata in Cassazione dove venne confermata la pena per l’infermiere e annullata quella per il medico mediante rinvio.

Giustizia non è fatta

progetti architetturaNonostante le battaglie della moglie dell’architetto e della cognata, tutto tace. Uno Stato assente e tante incombenze a cui far fronte da sole, incombenze anche di ordine economico. Ma la moglie chiede giustizia, chiede che i sogni di suo marito non siano morti con lui e non sarà sufficiente istituire un premio, una borsa di studio per architetti che ne commemori la memoria. A un mese dalla morte dell’architetto, ancora si attende che sia fatta giustizia sulla sua morte, perché per gli episodi di malasanità sono previsti anche dei risarcimenti pecuniari, oltre alla soddisfazione dei cari del defunto.

E si apre di nuovo anche il solito discorso sull’eutanasia, eutanasia che la moglie aveva richiesto per il marito qualora non gli fosse stato concesso l’accesso alle cure Stamina prima che scoppiasse tutto il caos attorno a questa terapia ancora oggi tanto discussa e di cui il fautore è stato giudicato alle stregue di un truffatore e condannato al carcere.

I ragionevoli dubbi

Intanto l’architetto se n’è andato e la moglie ancora non si capacita del fatto che l’ospedale continui a negare le sue responsabilità nonostante le sentenze: secondo l’accusa, infatti, non c’era nessuno, al momento dell’arresto respiratorio che aveva fatto seguito a un ritorno di coda dell’anestesia, a prestare soccorso all’architetto. Il risarcimento danni non era stato ancora pagato dall’ospedale che si è limitato a versare 80 mila euro per parte civile.